venerdì 30 settembre 2011

COSE DELL'ALTRO MONDO, Ovvero, come fare un film strutturalmente razzista nonostante gli intenti

Ho atteso un poco prima di postare un articolo sull'ultimo sforzo registico di Francesco Patierno per non risultare vincolato, nel giudizio, a esiti di Botteghino (rivelatisi quasi disastrosi) e premiazioni varie (infruttuose).
Vengo subito al punto e a quella che è la mia tesi: "Cose dell'altro mondo" è un film strutturalmente razzista.

Lo è nonostante gli intenti che si palesano viceversa come aspramente critici nei confronti di una certa mentalità del nord-est (ma il concetto può tranquillamente estendersi a l'Italia tutta) la quale non fa che considerare lo straniero, il diverso, istigata spesso da piccoli ducetti del tubo catodico (nel film Diego Abatantuomo, imprenditore dalla nuance leghista, sforzato accento veneto, moglie imborghesita ed amante da raccattare a tarda notte lungo i viali) come nemico, ladro di lavoro, sussidi e donne a coloro che pretendono di restare "padroni a casa loro".
La domanda che si pone, e ci pone, il regista (peraltro riprendendo pari pari in questo il bel film di Sergio Arau, Un giorno senza Messicani) è semplice. Che accadrebbe alle nostre città, al paese, alle nostre vite se un bel giorno, in seguito ad un bel temporalone tutti gli stranieri svanissero?

Il regista, disciplinatamente, ce lo espone: un disastro di proporzioni colossali: rifiuti sparsi per tutta la città, ché gli spazzini son tutti stranieri, fabbriche chiuse, che gli operai sono tutti di loro e persino, persino  (e non sto scherzando) Patierno ci spiega che non vi sarebbe più meretricio, rendendo peraltro sciaguratamente infelice Abatantuomo e il suo rapporto amoroso da 50 euro all'ora consumato in pacchiano SUV tedesco.

Il primo motivo per cui il film si dimostra intrinsecamente razzista è scritto proprio qui sopra: esso considera la dimensione, la vita dello straniero solo, o principalmente, nel suo aspetto funzionale. Lo si vede nella maniera in cui la borghese signora Abatantuomo impazzisce nello scoprire di dover preparare ella stessa la colazione, o allorquando Mastandrea scopre di doversi lui stesso occupare della madre finto rincitrullita, che la badante pure è data per dispersa.

Lo straniero è utile perché ci serve, sembra essere la tesi di fondo, ed in questa piccola tautologia pare essere racchiuso il difetto principale del film: l'incapacità di pensare all'altro,al diverso in quanto persona, con pregi e con difetti, simpatico o stronzo ma sempre, e comunque, persona con i suoi diritti e la sua dignità. Non si capisce se per secondare i gusti del pubblico o viceversa per un deficit concettuale degli autori, ma il film non perviene mai ad una considerazione di questo tipo.

Vi è senz'altro il tentativo di umanizzare questa figura monodimensionale, lo è negli intrecci tra l'italiana maestrina e l'operaio della fabbrica del papi, tra il papi e la prostituta mezza amante e mezza psicologa, lo è nella figura del tenerissimo bambino di colore che sfinito dalle derisioni dei cattivi compagni viene sorpreso con gessetti in mano intento a imbiancarsi il volto speranzoso che eliminando la diversità della pelle si eliminino anche gli scherni e le cattiverie degli altri bimbi.

Ma anche qui, nel momento in cui la stilizzazione, che pure potrebbe avere un senso nella cifra complessiva del lavoro, cede il passo alla caratterizzazione a mio parere, il regista cade, e male, nella misura in cui tratteggia soltanto figure di santi uomini e sante donne, operai irreprensibili, fedeli, onesti, buoni, tutti fabbrica e famiglia; mercenarie intente a sorridere compassionevoli e fare doni a squallidi cinquantenni intenti ad abusare di loro.

Quasi come se fosse solo così, zuccherosi, candidi e melensi che gli stranieri possano essere accettati e riconosciuti dal pubblico nostrano: ma in sé questo tipo di accettazione è un rifiuto, poiché utilizza parametri differenti rispetto a quelli richiesti alla propria comunità. Pare di rivedere, 50 anni dopo però, il gran protagonista di Indovina chi viene a cena, il quale per essere accettato, nella finzione cinematografica, dai genitori della sua amata e, più in generale, al pubblico pagante, doveva presentarsi come brillante dottore laureato col massimo dei voti, intelligente, acuto, buono, altruista, disinteressato e, naturalmente, molto, molto umile. Di anni ne sono passati assai, ma pare che per il regista la lancetta dell'orologio si sia bloccata e che ancora non sia stato compreso che, perché accettazione sia, lo straniero lo si deve raffigurare per quel ché, anche odioso, e la reazione ha da essere "Che persona odiosa!", e non "Odioso straniero!"

Di più, a questo razzismo se ne palesa, a mio avviso, uno di tono del tutto differente ma del tutto speculare: quello nei confronti degli italiani.  Essi sono rappresentati come crudeli, nei bimbi che deridono il loro compagno, arroganti ed incapaci, nel non saper organizzare la raccolta rifiuti, o lavorare in fabbrica, o badare all'anziana madre non autosufficiente. Questa schematizzazione risulta particolarmente fastidiosa perché in una certa misura è insultante verso il pubblico, che pare quasi non essere considerato capace di comprendere ed assimililare concetti che vadano al di là del bianco e del nero, del buono e del cattivo, ed in un'altra misura incoraggia una visione conflittuale della convivenza, limitandosi a spostare, in ultima analisi, l'accusa dagli accusati agli accusatori, escludendo a priori la possibilità di un mondo nel quale buone persone  di differenti origini e culture possano convivere armoniosamente per sostenersi nel cercare di creare un futuro di benessere per tutti.

Credo che con questa cifra stilistica il cinema italiano possa con tutta tranquillità rinunciare alle sue funzioni educative oltreché a qualsiasi velleità internazionale: se è vero che la cucina italiana non ha rivali e conta estimatori in tutto il globo terracqueo tuttavia, credo, certe sbobbe sarebbero difficilmente digeribili anche dagli stomaci più generosi!

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